LA MORTE DELLA MADRE DOPO IL PARTO
ERRORE MEDICO E RISARCIMENTO DANNI – AVVOCATO MALASANITÀ
La mortalità materna è un evento raro ma che purtroppo può verificarsi sia durante la gravidanza che dopo il parto in particolare quando si aggravano le condizioni materne a causa di patologie preesistenti o di patologie associate alla gravidanza stessa.
In passato, la mortalità materna era più frequente considerando che non erano ancora presenti gli strumenti di cui disponiamo oggi i quali permettono di prevenire le complicanze attraverso un approccio diagnostico terapeutico avanzato. Il progresso della medicina ha contribuito alla riduzione dell’evento mortalità materna.
Ad ogni modo, ad oggi, la mortalità materna rimane un fenomeno per lo più frequente nei paesi poveri rispetto ai paesi industrializzati. Il tasso di mortalità materna in Africa è di circa 500 su 10.000 parti. Nei paesi sviluppati si verifica, invece, meno dell’1% di morti materne, metà delle quali può essere evitabile se non fosse per gli errori commessi dai professionisti sanitari.
I professionisti sanitari commettono errori quando trascurano dei dati clinici fondamentali che gli permettono di inquadrare la paziente, mettono in atto un trattamento non adeguato al caso clinico, sbagliano la diagnosi, si imbattono in procedure pericolose non tenendo conto dei rischi e dei pericoli, non intervengono in maniera tempestiva quando necessario, non seguono i protocolli e le linee guida e non tengono conto delle evidenze scientifiche aggiornate durante lo svolgimento del loro operato.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la mortalità materna come “la morte di una donna durante la gravidanza o entro 42 giorni dal suo termine per qualsiasi causa correlata o aggravata dalla gravidanza o dal suo trattamento ma non da cause accidentali o fortuite”.
È stata condotta una ricerca durata 10 anni da parte dell’Istituto Superiore di Sanità per la sorveglianza della mortalità materna in 10 regioni italiane. Sono stati analizzati, a ritroso, i percorsi assistenziali che sono stati messi in atto per quelle pazienti vittime di mortalità materna in modo da individuarne la causa del decesso e le criticità e di migliorare l’assistenza e la condotta ostetrica.
La morte materna dopo il parto ovvero entro i 42 giorni dal parto può essere dovuta da cause ostetriche e a condizioni patologiche che erano presenti prima della gravidanza.
Le cause e fattori di rischio della mortalità materna
Per quanto riguarda le cause ostetriche, le principali sono:
- emorragia;
- sepsi;
- disordini ipertensivi;
- patologie cardiovascolari.
La mortalità materna, inoltre, aumenta all’aumentare dell’indice di massa corporea quindi le donne obese (BMI > 30) sono più a rischio di mortalità materna. La gravidanza di una donna obesa, infatti, è definita a rischio a causa di una maggiore incidenza di problemi cardiovascolari, diabete e tromboembolismo.
Per questo motivo è importante il calcolo dell’indice di massa corporea (BMI) all’inizio e a termine della gravidanza e l’apporto calorico giornaliero deve essere calcolato in base al peso pregravidico.
È importante associare all’alimentazione anche l’attività fisica; per le donne obese è raccomandata un’attività fisica di 30 minuti al giorno. Le donne obese che cercano una gravidanza devono essere incoraggiate a ridurre il loro peso prima di intraprendere una gravidanza incoraggiandole ad un cambiamento dell’alimentazione e dello stile di vita.
Infine, per le donne obese in caso di taglio cesareo vi è un maggior rischio di infezione e anche un maggior rischio di tromboembolismo.
Un altro fattore di rischio di mortalità materna è il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ma anche la gravidanza in età materna avanzata.
La depressione è anche una causa di mortalità materna indiretta entro circa un anno dalla nascita poiché, se complicata, può portare la donna al suicidio.
L’emorragia del post partum
Fra le cause di morte materna dopo il parto la più frequente è l’emorragia del post partum la quale può essere primaria se avviene entro le 24 ore dal parto o tardiva se avviene fra le 24 ore e le 12 settimane dopo il parto.
L’emorragia del post partum ha un’incidenza del 5 % e se non controllata può evolvere in shock ipovolemico o in una coagulopatia da consumo (CID) fino al collasso cardiocircolatorio della paziente.
Per prevenire questa spiacevole evenienza bisogna ricercare i fattori di rischio e se più di uno di questi è presente è necessario provvedere ad un’assistenza e a dei controlli più intensivi.
I fattori di rischio dell’emorragia post partum
I fattori di rischio dell’emorragia del post partum sono: pregressa emorragia del post partum, tutte quelle condizioni che comportare una sovradistensione dell’utero quali:
- macrosomia fetale (peso stimato maggiore di 4500 grammi);
- polidramnios (quantità eccessiva di liquido amniotico);
- gravidanza gemellare;
- età maggiore di 40 anni;
- preeclampsia;
- obesità;
- uso eccessivo di Syntocinon® e prostaglandine per l’induzione del travaglio di parto;
- anemia
Si parla di emorragia del post partum quando la perdita di sangue al momento del parto vaginale è maggiore di 500 ml e maggiore di 1000 ml durante il taglio cesareo. In base all’entità del sanguinamento distinguiamo lo shock compensato, lieve, moderato e grave; in quest’ultimo caso si ha il collasso cardiocircolatorio della paziente poiché si assiste ad un’alterazione delle funzioni vitali.
I segni e i sintomi dell’emorragia post partum
Il personale sanitario deve essere capace di riconoscere i segni e i sintomi di un’emorragia del post partum e non deve essere trascurata la quantificazione della perdita ematica attraverso sacche graduate. Nel momento in cui si assiste ad un’eccessiva perdita di sangue dopo il parto si deve andare a ricercare la causa dell’emorragia, trattare la causa che l’ha provocata e stabilizzare le condizioni emodinamiche della paziente somministrando liquidi per aumentare la volemia, praticare la trasfusione se i livelli di emoglobina sono molto bassi e per ogni 4 sacche di sangue che vengono trasfuse deve essere somministrato plasma fresco congelato per reintegrare i fattori della coagulazione.
Non appena viene fatta diagnosi di emorragia del post partum deve essere attivata l’emergenza, devono essere posizionati degli accessi venosi, devono essere eseguiti gli esami di laboratorio e l’emogasanalisi, devono essere rilevati in continuo i parametri vitali e anche lo stato di coscienza della paziente, deve essere fatta la richiesta di sacche di sangue per averle pronte nel caso in cui si rendesse necessaria la trasfusione, si deve evitare l’ipotermia e l’acidosi e deve essere ricercata e trattata la causa dell’emorragia
Le cause più frequenti dell’emorragia post partum
La causa più frequente dell’emorragie del post partum è l’atonia uterina, ovvero la mancata contrazione dell’utero in seguito al parto. Dopo l’espulsione del feto, infatti, in condizioni di fisiologia le fibre muscolari dell’utero si contraggono e determinano un’occlusione delle arteriole spirali provocando così un’emostasi meccanica prevenendo l’eccessiva perdita di sangue. Nel caso di atonia uterina questo processo non avviene e si va in contro ad emorragia più o meno grave in base all’entità della perdita ematica e dall’alterazione dei parametri vitali che ne consegue. Per promuovere la contrazione del viscere uterino devono essere somministrati farmaci uterotonici di prima linea (Syntocinon® e Methergin®). Se questi farmaci sono inefficaci e la perdita ematica non si arresta si ricorre alla somministrazione dei farmaci di seconda linea (Nalador®). Se ciò non basta a promuovere la contrazione dell’utero e quindi a far arrestare il sanguinamento, si deve ricorrere a delle procedure invasive quale il posizionamento del bakri ballom, un dispositivo che permette di ottenere una compressione in modo da provocare un’emostasi meccanica al fine di far sì che il sanguinamento si arresti, fino all’isterectomia.
La gestione dell’emorragia post partum
Per la gestione dell’emorragia del post partum esistono delle linee guida e dei protocolli che devono essere seguiti dal personale sanitario al fine di un trattamento adeguato.
Oltre all’atonia uterina, le altre cause di emorragia del post partum sono:
- presenza di residui placentari all’interno della cavità uterina. Per evitare che ciò accada deve essere verificata l’integrità degli annessi (placenta e membrane amniocoriali) in seguito al secondamento; se questi non risultano essere integri deve essere praticata una revisione della cavità uterina. Nel caso di anomala adesione della placenta alla parete dell’utero (placenta accreta) deve essere eseguita l’isterectomia ovvero la rimozione dell’utero;
- presenza di lacerazioni sanguinanti del canale del parto le quali devono essere suturate fino ad ottenere un’emostasi adeguata. Dopo il parto e il secondamente deve essere verificata l’integrità del canale del parto in modo da suturare le lacerazioni;
- disturbi della coagulazione del sangue;
Se il sanguinamento è importante la paziente può andare in contro alla coagulazione intravascolare disseminata (CID), una coagulopatia dovuta al consumo dei fattori della coagulazione per cui l’organismo non riesce più a tamponare l’eccessiva perdita di sangue e si assisterà a degli importanti sanguinamenti della cute e delle mucose. Il trattamento consiste nella reintegrazione dei fattori della coagulazione. Il trattamento tempestivo, in questo caso, è di vitale importanza.
Al fine di prevenire l’emorragia del post partum deve essere attuata la profilassi antiemorragica somministrando al momento del parto un farmaco uterotonico (Syntocinon®).
Quindi, al fine di evitare la morte materna da emorragie del post partum il professionista sanitario deve essere in grado di riconoscere il quadro clinico e attivare tempestivamente l’emergenza, andare a ricercare la causa dell’emorragia così da trattarla, stabilizzare le condizioni emodinamiche della paziente, seguire i protocolli e le linee guida, mettere in atto un trattamento tempestivo, somministrare la profilassi antiemorragica al momento del parto, non trascurare i fattori di rischio, quantificare la perdita ematica al momento del parto e tenere in osservazione la paziente nelle ore successive al parto.
L’embolia polmonare
La gravidanza determina uno stato tromboembolico per l’aumento dei fattori della coagulazione allo scopo di prevenire l’eccessiva perdita di sangue al momento del parto. Il rischio di tromboembolia è maggiore dopo il parto a causa della così detta trombocitosi puerperale. La patologia tromboembolica è caratterizzata dalla presenza di trombi, in particolare in corrispondenza degli arti inferiori. Se non viene attuato un trattamento, il trombo potrebbe migrare a livello delle arterie polmonari causando un’embolia polmonare. I vasi polmonari saranno quindi ostruiti dalla presenza di questo trombo per cui la paziente presenterà gravi difficoltà respiratorie fino al collasso e alla morte improvvisa.
I medici devono riconoscere le pazienti che presentano dei fattori di rischio per la trombosi venosa sin dall’inizio della gravidanza. Se le pazienti sono ad alto rischio deve essere effettuata la profilassi tromboembolica con eparina a basso peso molecolare (nome commerciale Clexane®) in epoca preconcezionale e almeno sei mesi dopo il parto, se il rischio è intermedio deve essere presa in considerazione la profilassi antenatale la quale deve essere continuata almeno 10 giorni dopo il parto, se sussistono più di 4 fattori di rischio la profilassi deve essere iniziata nel primo trimestre e se vi è la presenza di 3 fattori di rischio deve essere iniziata alla 28 esima settimana gestazionale.
È necessario che le pazienti che assumono la terapia tromboembolica la interrompano in previsione del parto per riprenderla circa 12 ore dopo il parto.
La profilassi del tromboembolismo venoso, oltre a farmaci antitrombotici, può essere attuata, soprattutto per le donne a basso rischio, con l’utilizzo di calze elastiche compressive.
In questo caso il medico commette degli errori se non prescrive un trattamento profilattico per le donne che presentano fattori di rischio per patologia tromboembolica, se non effettuata una dettagliata anamnesi al fine di rilevare i fattori di rischio, se non dà indicazione di interrompere l’assunzione degli anticoagulanti in previsione del parto, sia spontaneo o cesareo e se non prescrive la ripresa o l’inizio dell’assunzione di tali farmaci dopo almeno 12 ore dal parto.
I disturbi ipertensivi ed emorragia cerebrale
Le donne con disturbi ipertensivi preesistenti la gravidanza o con ipertensione gestazionale (pressione maggiore di 140/90 mmHg dopo la 20esima settimana gestazionale) sono a rischio di sviluppare la preeclampsia, una malattia sistemica di origine placentare la quale, oltre che con l’ipertensione, si manifesta con presenza di proteine nelle urine (proteinuria > 0,3 grammi nelle 24 ore), disturbi visivi, cefalea, epigastralgia, disordini della coagulazione, edemi ed insufficienza renale.
La terapia ha come obiettivo quello di garantire un buon controllo pressorio attraverso la somministrazione di farmaci antipertensivi, mantenere l’equilibrio idrico monitorando i liquidi che vengono assunti e quelli che vengono espulsi con le urine, prevenire e correggere i disturbi della coagulazione somministrando farmaci antitromboembolici e prevenire l’attacco eclamptico ricorrendo alla somministrazione di solfato di magnesio quando si ha una resistenza ai farmaci antipertensivi.
Dopo il parto, il quale rappresenta la vera terapia della preeclampsia, deve essere continuato il trattamento antipertensivo, il bilancio idrico considerando il fatto che la riattivazione della diuresi si ha entro le 36 – 48 ore dopo il parto e la profilassi tromboembolica.
In presenza di segni di preeclampsia severa o anche in assenza di quest’ultimi, si può verificare lo sviluppo di convulsioni tonico cloniche che sono espressione del danno del sistema nervoso centrale. Tale condizione comporta un rischio aumentato di mortalità materna per emorragia cerebrale fino all’arresto cardiaco.
Le convulsioni possono essere controllate con il solfato di magnesio e se le crisi non placano è necessario somministrare Diazepam® (nome commerciale Valium®). La paziente con crisi convulsive, inoltre, deve essere stabilizzata per evitare che si ferisca durante la crisi.
Al fine di evitare la morte materna da emorragia cerebrale devono essere trattate le cause che potrebbero portare all’insorgenza di crisi convulsive. Il medico deve quindi prescrivere un trattamento antipertensivo adeguata e valutare se la paziente risponde bene alla terapia monitorando la pressione arteriosa. Se la pressione è controllata dai farmaci si deve passare ad un’altra terapia affiche la pressione arteriosa sia compensata.
Se i valori pressori superano i 160/110 mmHg si deve passare alla somministrazione di solfato di magnesio e durante la somministrazione devono essere monitorati i parametri vitali tra cui i riflessi rotulei la cui assenza sta ad indicare un’intossicazione da questo farmaco che può portare all’arresto cardiaco. In presenza di intossicazione da solfato di magnesio somministrare calcio gluconato.
Il suicidio
Lo stato emotivo della donna in seguito al parto è particolarmente vulnerabile in quanto con la nascita si ha l’assunzione di nuovi ruoli e responsabilità quale quello di essere madre.
Dopo il parto la donna può presentare uno stato emotivo alterato e instabile fino a sviluppare una vera e propria psicosi poiché si ha un distacco della donna dalla realtà e la proiezione del proprio disagio sul bambino che viene inteso come un nemico esterno; inoltre, la donna si sente inadeguata alle richieste del bambino e perde di vista sé stessa e la relazione con il bambino, condizione che può portarla al suicidio.
In questo caso l’errore del medico e del professionista sanitario è quello di aver trascurato lo stato emotivo della donna durante la gravidanza e in particolare dopo il parto e di non aver raccolto dati clinici che possono essere considerati dei fattori di rischio per la psicosi puerperale.
È fondamentale che i professionisti prestino attenzione al comportamento della donna dopo il parto così da poterla indirizzare ad un medico specialista in modo da prevenire tentativi di suicidio.