LE CAUSE DI MORTALITÀ MATERNA
ERRORE MEDICO E RISARCIMENTO DANNI
La morte materna è la morte di una donna durante la gravidanza o entro 42 giorni dal suo termine per qualsiasi causa correlata o aggravata dalla gravidanza o dal suo trattamento ma non da cause accidentali o fortuite.
La morte della mamma può avvenire:
- morte a causa di emorragia post partum;
- morte durante il travaglio;
- morte dopo il parto;
- morte a seguito di complicanze ostetriche
- morte per errata gestione ostetrica;
- morte sepsi;
- morte coagulazione intravascolare disseminata (CID)
L’incidenza di mortalità materna, con il passare degli anni, è progressivamente diminuita, in particolare a partire dagli anni ’50 grazie all’introduzione di tecnologie sempre più all’avanguardia per il monitoraggio del benessere materno, e anche fetale, e al progresso della medicina che permettono di attuare un piano anche di prevenzione della mortalità materna.
Si parla poi di morte materna diretta quando quest’ultima è causata da complicanze insorte durante la gravidanza, il parto e dopo il parto, da interventi, trattamenti errati, omissioni o da una serie di eventi che sono il risultato di ognuna delle cause precedenti.
La morte materna indiretta, invece, è causata da malattie esistenti prima del concepimento o insorte durante la gravidanza, che non sono provocate da cause ostetriche dirette, ma aggravate dagli effetti fisiologici della gravidanza.
Per morte materna tardiva, infine, si intende la morte di una donna per cause dirette o indirette che hanno luogo oltre i 42 giorni ma entro 1 anno dal parto.
Vi sono poi le morti materne che si verificano durante la gravidanza, parto o puerperio, avvenute per cause accidentali come ad esempio un incidente stradale.
I fattori di rischio che causano la morte materna
I fattori che contribuiscono all’incremento della mortalità sono l’aumento dell’età media delle donne al parto, l’incremento della presenza di donne straniere non efficacemente seguite in gravidanza e l’aumentata proporzione di tassi di parto avvenuto tramite taglio cesareo.
I fattori organizzativi e clinico assistenziali che possono essere causa di morte materna sono:
- l’incapacità di percepire la gravità del problema;
- diagnosi errata;
- trattamenti non tempestivi;
- assistenza superficiale e non adeguata al caso;
- la mancata e inadeguata comunicazione tra i professionisti.
Sulla base di ciò emerge il fatto che le morti materne possono essere evitate se si migliorassero gli standard clinici e organizzativi.
La morte della madre rappresenta un “evento sentinella” che rispecchia l’efficacia e l’appropriatezza dell’assistenza al percorso nascita e delle cure perinatali di un sistema sanitario; di fatti, l’analisi delle morti materne è stato un criterio per valutare la salute delle donne ma anche la qualità delle cure ostetriche. Ad oggi, grazie al successo della medicina moderna, le morti materne sono molto rare nei paesi sviluppati, il che ha portato ad un aumento di interesse per l’analisi dei cosiddetti eventi “near-miss”.
Le probabilità di morte materna
Per Maternal Near Miss (MNM) si intende una donna che è sopravvissuta a delle complicanze che si sono verificate durante la gravidanza, il parto o entro 42 giorni dal parto.
Con l’obiettivo di identificare i casi di Maternal Near Miss (MNM) su rete mondiale, è stato condotto uno studio nel periodo compreso tra il 2 Maggio del 2010 e il 31 Dicembre del 2011, approvato dalla “World Health Organization Ethical Review”. Le donne prese in analisi sono state classificate in quattro categorie di età materna: 20, 34, 35-39, 40-44, >45. La più alta prevalenza (9,5%) di Maternal Near Miss è stata osservata nelle donne di età compresa tra 35-39 anni, mentre per le donne di età maggiore ai 45 anni è stato riscontrato lo 0,5%.
La probabilità di morte materna è più rilevante tra le donne con problemi preesistenti di salute, alle quali è stato associato un aumento di quasi 6 volte la probabilità di mortalità materna e tra le donne che hanno presentato problemi in gravidanza, alle quali è stato invece associato un duplice aumento delle probabilità di morte.
Una di queste problematiche della gravidanza è la tromboembolia venosa la quale, in caso di mancato o di inadeguato trattamento, in circa il 25% delle donne, può evolvere in embolia polmonare, con conseguente decesso della paziente.
La gravidanza si associa al determinarsi di uno stato trombogenico e quindi ad un quadro ipercoagulativo che previene l’eccessiva perdita di sangue al momento del parto. La modalità di espletamento del parto influenza il rischio di tromboemolia venosa nel periodo del post partum, per cui, rispetto al parto vaginale, il rischio è di quattro volte aumentato in seguito a taglio cesareo.
Una delle conseguenze della tromboembolia venosa è la CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata), che si manifesta prevalentemente nel periodo del post-partum. La CID, chiamata anche “coagulopatia da consumo”, si instaura quando si verifica una sovra-attivazione dei normali processi della coagulazione con una conseguente progressiva diminuzione e consumo dei fattori della stessa, determinando una scarsa tendenza del sangue alla coagulazione, con conseguente emorragia. Questa condizione patologica si verifica non solo in seguito ad un deficit dei fattori della coagulazione, ma anche in seguito ad altre patologie come il distacco di placenta, l’emorragia post-partum e pre-eclampsia.
Nonostante sia un avvenimento raro, la mortalità materna è un indicatore della qualità dell’assistenza ricevuta dalla gravida infatti, circa la metà delle morti che si verificano durante la gravidanza, il parto e il puerperio può essere evitata migliorando gli standard di assistenza e l’organizzazione.
Al fine di evitare le morti materne è necessario migliorare la sicurezza e la qualità delle cure che vengono garantite alle donne che presentano delle patologie gravi e rare in gravidanza, promuovere la collaborazione tra professionisti e migliorare i sistemi di sorveglianza sanitaria al fine di individuare le principali cause di morti materne, migliorare la qualità del percorso nasciate e dell’assistenza, prevenire le morti evitabili, fare delle stime affidabili sull’incidenza della mortalità materna.
Sono maggiormente a rischio di mortalità materna le gravidanze ad alto rischio come le gravidanze gemellari, le gravidanze complicate da patologie materne della gravidanza o da patologie preesistenti la gravidanza, obesità o patologie placentari come placenta previa.
In Italia si registrano in media 9 morti materne ogni 100.000 parti dovute maggiormente a trombo embolie, emorragie e disordini ipertensivi; tra le cause non ostetriche vi sono la sepsi e le patologie cardiovascolari.
Il tasso di morte materna in seguito ad emorragia, tuttavia si è gradualmente ridotto grazie a delle iniziative promosse per prevenire e trattare questa emergenza ostetrica e alla definizione di protocolli e linee guida.
La maggior parte delle morti che avvengono dopo 42 giorni ma entro un anno dal parto sono dovute a delle neoplasie e in misura minore a cause violente.
I fattori di rischio di mortalità materna comprendono: l’età materna avanzata (età oltre i 35 anni), un elevato indice di massa corporeo (BMI > 30) ovvero obesità materna, le gravidanze ottenute attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita, avere avuto pregressi tagli cesarei e l’influenza.
Per quanto riguarda l’influenza è stato rilevato che nessuna delle donne morte durante la gravidanza, il parto o entro 42 giorni dal parto non erano state vaccinate durante la gravidanza contro l’influenza perciò è raccomandato di vaccinarsi intorno alla 28esima settimana di gravidanza.
Il comportamento medico in caso di placenta previa
La placenta previa l’impianto a livello del segmento uterino inferiore (SUI) della placenta che può coprire totalmente o parzialmente l’orifizio uterino interno (OUI).
Sulla base della topografia si distinguono:
- placenta previa marginale (raggiunge o dista meno di 2 cm dal bordo dell’OUI);
- placenta previa parziale (ricopre parzialmente l’OUI);
- placenta previa centrale (ricopre interamente l’OUI).
Uno dei fattori che aumenta la probabilità che l’evenienza si verifichi è proprio l’età materna, ma anche la gravidanza gemellare, multiparità, pregresso taglio cesareo e ricorso alla procreazione medicalmente assistita.
Il segmento uterino inferiore deriva dalla distensione e dall’assottigliamento dell’istmo ed è costituito prevalentemente da tessuto elastico e in misura minore da tessuto muscolare. Verso il termine di gravidanza il segmento uterino inferiore sul quale si inserisce la placenta si distende per permettere la progressione del feto e la placenta, essendo anelastica, non riesce ad andare incontro alle modifiche della sua sede di inserzione per cui si stacca provocando un sanguinamento.
La placenta previa rappresenta una delle cause di emorragia ante-partum che si verifica dopo le 24 settimane gestazionali ed è potenzialmente pericolosa per la salute della madre e del feto.
Il sintomo principale, fondamentale anche per la diagnosi, è la perdita di sangue dalla vagina. Il sangue, proveniente dagli spazi intervillosi, non si accumula tra le fibrocellule uterine, ragion per cui l’utero non si contrae e i dolori sono assenti.
Il trattamento consiste sia nell’adottare le misure più idonee per salvaguardare la vita della madre e quella del feto, sia nell’attesa di un’epoca gestazionale sempre più prossima al termine, se le condizioni fetali e materne lo richiedono.
La diagnosi precoce e l’intervento tempestivo sono fondamentali per una prognosi positiva.
Se il sanguinamento non è controllato e non viene ripristinato il volume ematico tramite la trasfusione o la somministrazione di emoderivati, aumenta il rischio di mortalità materna.
La prognosi per il feto dipende dall’estensione della placenta previa. Maggiore è la superficie della placenta che si stacca dal segmento uterino inferiore, più gravi saranno i rischi per il feto. Le complicanze fetali derivano prevalentemente dalla riduzione dell’apporto di sangue ossigenato per cui se la salute del feto risulta essere compromessa deve essere immediatamente eseguito il taglio cesareo.
Dopo aver fatto diagnosi di placenta previa si devono escludere eventuali segni di accretismo.
È compito del ginecologo diagnosticare la placenta previa attraverso l’ecografia, tecnica grazie alla quale è possibile individuare la localizzazione della placenta sin dal primo trimestre di gravidanza.
La localizzazione della placenta può essere individuata con l’ecografia del secondo trimestre nota anche come morfologica. C’è però da tener conto che la posizione della placenta, man mano che aumentano le dimensioni dell’utero con l’andare avanti della gravidanza, può risalire per cui, per le gravide alle quali è stata diagnosticata una placenta previa in occasione dell’ecografia morfologica deve essere prescritto un ulteriore controllo intorno alla 32esima settimana di gestazione.
Non sono da trascurare le perdite di sangue in una gravida con placenta previa e il management dipende dall’entità del sanguinamento, dall’epoca gestazionale e dal benessere materno e fetale. Se il sanguinamento è eccessivo da compromettere lo stato di salute materno e fetale deve essere espletato il parto in urgenza.
L’accretismo placentare
Per accretismo placentare si intende un’anomala adesione della placenta alla parete uterina.
Si parla di accretismo quando la placenta invade il miometrio ovvero gli strati più profondi dell’utero per cui è più difficile che venga rimossa.
Si distingue la placenta accreta quando i villi ovvero i vasi della placenta sono incorporati nel miometrio (lo strato muscolare dell’utero), placenta increta quando i villi sono presenti profondamente nel miometrio e placenta percreta quando i villi penetrano oltre la sierosa (lo strato più esterno dell’utero).
Le complicanze dell’accretismo placentare sono la mancata espulsione della placenta dopo il parto che può comportare importanti sanguinamenti ed emorragie dopo il parto.
Nel caso in cui il sanguinamento dopo il parto non può essere controllato deve essere rimosso l’utero (isterectomia).
Per evitare tale evenienza è importante indagare la localizzazione della placenta in occasione dell’ecografia del secondo trimestre e determinare in tutte le donne che hanno subito in precedenza un taglio cesareo la localizzazione della placenta nel primo trimestre per escludere una gravidanza che si è impiantata in corrispondenza della cicatrice uterina (scar pregnancy) tanto da invadere tutto lo spessore dell’utero e, nei casi più gravi, anche gli organi vicini. In questi casi è consigliata l’interruzione di gravidanza perché l’evoluzione della gravidanza è rischiosa per la vita della donna.
Nel primo trimestre di gravidanza, per tutte le donne che hanno avuto un pregresso taglio cesareo, è raccomandato di individuare la localizzazione della placenta in modo da escludere l’impianto della camera gestazionale sulla pregressa cicatrice uterina così da interrompere la gravidanza in quanto è rischiosa per la vita della donna.
L’ipertensione gestazionale e pre-eclampsia
L’ipertensione gestazionale, in una donna precedentemente normotesa, si verifica quando compare, dopo la 20esima settimana di gestazione, una pressione arteriosa sistolica maggiore o uguale a 140 mmHg ed una pressione arteriosa diastolica maggiore di 90 mmHg.
Un quarto delle pazienti ipertese, in particolare le gravide in età avanzata, svilupperà, nel terzo trimestre, forme pre-eclamaptiche di variabile gravità.
La pre-eclampsia è una malattia sistemica di origine placentare. È definita dalla presenza di ipertensione e proteinuria (>300mg in 24h) ovvero presenza di proteine nelle urine, e può essere associata a manifestazioni diverse come edemi, disturbi visivi, cefalea, epigastralgia (dolori addominali) ed alterazioni della coagulazione del sangue.
La placenta svolge un ruolo fondamentale nella patogenesi ed in seguito al parto e all’espulsione della placenta i sintomi vengono meno. Le alterazioni critiche sono: diffusa disfunzione endoteliale, vasocostrizione (causa di ipertensione), aumentata permeabilità vascolare (causa di proteinuria ed edema).
La pressione sistolica maggiore di 160 mmHg richiede un trattamento ipertensivo farmacologico. Quando la pressione sistolica raggiunge i 180 mmHg si possono verificare delle convulsioni.
Una variante grave delle pre-eclampsia è la sindrome di HELLP (Hemolysis Elevated Liver Enzymes Low Platelet), caratterizzata da emolisi dei globuli rossi, aumento delle transaminasi e da piastrinopenia (<100.000/ml). La terapia della preclampisia, anche conosciuta come gestosi, ha come obiettivo quello di garantire un buon controllo pressorio attraverso la somministrazione di farmaci antipertensivi, il mantenimento dell’equilibrio idrico monitorando i liquidi assunti e quelli secreti, somministrando liquidi endovena se vi è oliguria (ridotta emissione di urina) ed evitando il sovraccarico dei liquidi per il rischio di edema polmonare, prevenire e correggere i disturbi della coagulazione somministrando farmaci anticoagulanti (eparina a basso peso molecolare) e somministrare solfato di magnesio se si evidenza una resistenza ai farmaci antipertensivi e per prevenire un attacco eclamptico. Anche dopo il parto è necessario continuare il trattamento antipertensivo, il bilancio idrico e la profilassi trombo embolica. È importante che la preeclampsia venga correttamente gestita poiché l’aggravarsi del quadro clinico può essere fatale per la gravida/puerpera ma anche per il nascituro. Il management della preeclampsia prevede il trattamento dell’ipertensione attraverso la somministrazione di farmaci antipertensivi come il metildopa (nome commerciale: Aldomet®), la prevenzione delle complicanze dell’ipertensione stessa (eclampsia, sindrome di HELLP) attraverso la somministrazione di solfato di magnesio quando la pressione non è controllata dai farmaci, il mantenimento dell’equilibrio idrico attraverso il monitoraggio delle entrate e delle uscite e il trattamento e la prevenzione di disturbi della coagulazione attraverso la profilassi antiemorragica con eparina a basso peso molecolare.
L’attacco eclamptico come causa di morte della madre
L’eclampsia è un’emergenza medica che richiede un trattamento antipertensivo urgente ed efficace.
Si ha lo sviluppo di crisi convulsive tonico cloniche che sono espressione del danno a carico del sistema nervoso centrale. Questo quadro clinico può evolvere in coma e si ha un elevato rischio di mortalità materna per emorragia cerebrale fino ad arresto cardiaco.
L’attacco eclamptico può verificarsi sia durante la gravidanza che dopo il parto e può essere associata o meno a una complicanza correlato a un disturbo ipertensivo. La risoluzione della gravidanza è successiva alla stabilizzazione della placenta.
Durante le convulsioni è importante contenere la paziente per evitare che si ferisca dopodiché la gravida/puerpera deve essere stabilizzata. Durante le crisi convulsive può essere necessario somministrare diazepam (Valium®) per controllarle.
La sepsi come causa di morte della madre
La sepsi è un’infezione che avviene nel lasso di tempo fra la rottura delle membrane o il parto e il 42esimo giorno dopo il parto.
Si manifesta con dolore pelvico, febbre, anomalie delle secrezioni vaginali, ritardo nella riduzione delle dimensioni uterine dopo il parto, frequenza cardiaca maggiore di 90 battiti al minuto, alterazione nel numero dei globuli bianchi, frequenza respiratoria elevata.
La profilassi antibiotica in ostetricia al fine di prevenire la sepsi viene eseguita in caso di tamponi vaginali e rettali per lo streptococco beta emolitico positivi, rottura delle membrane prolungata, taglio cesareo elettivo o in urgenza, lacerazioni di terzo e di quarto grado che interessano lo sfintere e la mucosa anale e rimozione manuale della placenta.
In caso di infezione certa o sospetta in gravidanza si può porre diagnosi di sepsi una volta verificata la presenza di danno d’organo. In caso di sepsi, più precocemente si assumono antibiotici, migliore è la prognosi.
Si parla di shock settico invece quando si ha un’infezione certa o sospetta associata a ipotensione nonostante la somministrazione di fluidi che può essere causa di mortalità materna.
In presenza di un’infezione devono essere somministrati antibiotici a largo spettro nell’attesa del risultato dell’antibiogramma. Devono essere ricercate le cause e il focolaio responsabile dell’infezione deve essere eradicato il prima possibile non appena viene fatta diagnosi di sepsi.
L’embolia da liquido amniotico
Per embolia da liquido amniotico si intende il passaggio nella circolazione materna di materiale fetale e si manifesta con:
- ipossia;
- ipotensione;
- coagulopatia;
L’embolia di liquido amniotico è difficile da diagnosticare. Il trattamento consiste nel supporto emodinamico, rianimazione cardiopolmonare e il parto deve essere espletato entro 5 minuti dall’insorgenza dell’evento acuto.
La complicanza è l’embolia polmonare ed eventi emorragici sino alla coagulazione intravascolare disseminata (CID).
La rottura d’utero
La rottura d’utero è un’emergenza ostetrica che prevede la separazione di tutti gli strati dell’utero e una comunicazione della cavità uterina con la cavità addominale tanto che il feto può ritrovarsi nell’addome materno. Con la rottura d’utero cessa l’apporto di ossigeno al feto perciò quando si verifica questo evento deve essere eseguito il taglio cesareo in emergenza.
Escludendo le cause traumatiche come per esempio gli incidenti stradali, la rottura d’utero è correlata a cause ostetriche. Questa drammatica evenienza interessa, nella maggior parte dei casi, le pazienti pluripare (le donne che hanno partorito più volte) considerando la notevole sottigliezza del segmento uterino inferiore (SUI). Il segmento uterino inferiore è quella parte dell’utero che si modifica e si distende in corso di gravidanza sotto l’effetto delle contrazioni uterine ed è proprio in questo punto che avviene la rottura.
La rottura d’utero, inoltre, si verifica prevalentemente anche in quelle donne che hanno avuto un pregresso taglio cesareo o un intervento chirurgico che ha interessato l’utero; infatti, le contrazioni uterine possono provocare una riapertura della cicatrice uterina del pregresso intervento.
Si può avere una rottura spontanea della pregressa cicatrice uterina dovuta soltanto alla forza delle contrazioni uterine che contribuiscono alla sua riapertura; una rottura spontanea di un utero normale, soprattutto se la donna è pluripara, ed è associata ad una scorretta gestione del travaglio di parto con uso eccessivo di ossitocina o prostaglandine, che aumentano l’intensità delle contrazioni, o sproporzione feto pelvica; la rottura può essere anche traumatica ed è determinata da cause esterne o da manovre ostetriche improprie.
Dopo aver fatto diagnosi di rottura d’utero si devono stabilizzare le condizioni materne ed estrarre il feto nel minor tempo possibile per ridurre i rischi neonatali e la morte correlati alla riduzione dell’ossigenazione.
Una volta estratto il feto, il trattamento chirurgico dipende dall’estensione della cicatrice, dalla severità dell’emorragia, dalle condizioni generali della madre e dal desiderio futuro di maternità.
Il trattamento può essere conservativo e consiste nel suturare la lesione se l’emorragia è facile da controllare e se le condizioni materne lo permettono, mentre se il quadro clinico materno è severo si deve procedere alla rimozione dell’utero (isterectomia).
Se non si trattata tempestivamente la rottura d’utero può essere causa di morte materna conseguente ad emorragia e sviluppo di una CID (coagulazione intravascolare disseminata) provocata da un consumo dei fattori della coagulazione.
Il ginecologo e l’ostetrica devono conoscere le cause che possono essere responsabili della rottura d’utero così da evitarla. Non devono essere somministrati farmaci uterotonici in maniera impropria, non devono essere eseguite manovre ostetriche incongrue, deve essere sconsigliato il travaglio di prova prima dei successivi due anni dal precedente taglio cesareo o alla donna che hanno subito un intervento a carico dell’utero.
Le cardiopatie
La gravidanza è un test da stress per il cuore. Le donne che sono in salute possono sopportare i cambiamenti fisiologici della gravidanza che prevedono un aumento del lavoro cardiaco (aumento della gittata cardiaca, del volume sanguigno e della frequenza cardiaca) a differenza delle gravide con cardiopatie. La gravidanza infatti può comportare scompenso cardiaco nelle gravide cardiopatiche.
Nel caso in cui la gravida è cardiopatica bisogna evitare il travaglio difficoltoso ed è previsto il controllo de dolore durante il travaglio di parto e la riduzione del periodo espulsivo e delle spinte tramite l’applicazione della ventosa ostetrica. È consigliata una profilassi antibiotica per prevenire le endocarditi ovvero un’infezione del cuore in particolare in quelle donne che presentano un prolasso della valvola mitrale e cardiomiopatia ipertrofica.
La gravida con cardiopatia dovrebbe essere seguita in maniera più intensiva, non solo dal ginecologo e l’ostetrica ma anche dal cardiologo. In particolare, durante il travaglio di parto con l’inizio dell’attività contrattile, si dovrebbe far in modo di ridurre gli sforzi materni al fine di prevenire un aggravamento della cardiopatia stessa.
Il tromboemblismo venoso
La gravidanza, di per sé, determina uno stato trombo embolico poiché si ha un aumento dei fattori della coagulazione per limitare l’eccessiva perdita di sangue al momento del parto.
La maggior parte degli eventi trombo embolici si verificano dopo il parto e in misura minore durante la gravidanza.
Per le donne ad alto rischio è necessario ricorrere ad una profilassi antenatale mentre per le donne che presentano quattro o più fattori di rischio è consigliata la profilassi nel primo trimestre e dopo la 28esima settimana gestazionale se vi sono tre fattori di rischio. Il trattamento antitromboembolico deve essere interrotto quando si prevede l’insorgenza del travaglio di parto e prima di eseguire la parto analgesia e il taglio cesareo per evitare il rischio di emorragie. Il trattamento deve essere ripreso circa 6 – 12 ore dopo il parto e deve essere continuato per almeno 6 settimane se la paziente è ad alto rischio e per almeno 10 giorni se il rischio è intermedio. È necessaria la mobilizzazione precoce nel caso di basso rischio.
Il tromboembolismo se non trattato può causare embolia polmonare e decesso della paziente.
L’emorragia post partum
L’emorragia del post partum è la più comune complicanza che insorge nelle ore successive al parto ed è definita come una perdita di sangue maggiore di 500 ml dai genitali esterni nel caso di parto vaginale e maggiore di 1000 ml nel caso di taglio cesareo. Quando la placenta, organo di scambio materno – fetale, si stacca dalla parete dell’utero, la maggior parte dei vasi sanguigni che hanno trasportato sangue da e verso la placenta vengono spezzati improvvisamente; di conseguenza, il principale meccanismo che permette di arrestare il sanguinamento dopo la fuoriuscita della placenta è rappresentato dalla contrazione dell’utero. L’assenza di una pronta e sostenuta contrazione dell’utero (atonia uterina) potrà condurre ad una perdita di sangue significativa. L’emorragia del post partum, non tempestivamente diagnosticata o inadeguatamente trattata, rappresenta una delle principali cause di morte materna direttamente correlata alla gravidanza.
L’emorragia del post partum è responsabile del 71% circa dei decessi; inoltre, la donna può essere a rischio di asportazione dell’utero (isterectomia) nel caso in cui il sanguinamento non può essere fermato.
Al fine di prevenire l’eccessiva perdita ematica al momento del parto è indicata l’iniezione intramuscolare profilattica prima dell’espulsione della spalla del feto o comunque prima del clampaggio del cordone ombelicale di ossitocina (nome commerciale Syntocinon®), farmaco che favorisce la contrazione dell’utero e previene l’insorgenza di quadri emorragici.
Dopo il parto la principale responsabilità del professionista sanitario è quella di monitorare la paziente e di controllare periodicamente la contrazione dell’utero e la presenza di sanguinamento vaginale con l’obiettivo di diagnosticare precocemente un’eventuale emorragia e di conseguenza trattarla in tempo, prima che vi sia un peggioramento delle condizioni cliniche della paziente.
L’emorragia del post partum deve essere gestita seguendo dei protocolli.
La CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata)
La coagulazione intravascolare disseminata è una patologia da consumo caratterizzata dalla presenza disseminata di trombi e dal consumo dei fattori della coagulazione con conseguente fibronolisi. Spesso la CID si verifica in corso di complicanze ostetriche aggravate come distacco di placenta, placenta previa, rottura d’utero ecc.
Si presenta come una condizione emorragica con sanguinamento a livello della cute e delle mucose e con episodi trombotici. Nei casi più gravi si manifesta shock ipovolemico e insufficienza multiorgano che possono portare al decesso.
Il trattamento consiste nell’identificazione e tempestiva correzione delle cause di base, infusione di liquidi ed emotrasfusione per la correzione della volemia, somministrazione di plasma fresco congelato per reintegrare i fattori della coagulazione, e somministrazione di antitrombina III.
La gravidanza extrauterina
La gravidanza extrauterina si intende l’impianto dell’embrione in un sito diverso dalla cavità uterina in cui si impianta in condizioni fisiologiche e può interessare la parte dell’utero in corrispondenza delle tube, il canale cervicale, l’addome e le ovaie. La sede più frequente della gravidanza extrauterina è la tuba.
Se non diagnosticata e se i sintomi vengono trascurati si può assistere alla rottura della tuba e conseguente shock emorragico che può portare alla morte della donna se non trattato tempestivamente.
Il diabete gestazionale e chetoacidosi diabetica
Il diabete gestazionale è un tipo di diabete che si sviluppa durante la gravidanza con una maggior incidenza nelle donne in età materna avanzata. La gravidanza, di per sé, ha un effetto diabetogeno: durante i primi mesi di gravidanza, il rialzo di estrogeni, progesterone e di altri ormoni stimola un aumento di produzione di insulina da parte del pancreas materno, mentre, nella seconda parte della gravidanza, la secrezione dell’ormone lattogeno placentare da parte della placenta e della prolattina determina un aumento della resistenza all’insulina ed una ridotta tolleranza al glucosio.
Quando la madre sviluppa un quadro di iperglicemia, il feto, non potendo usufruire dell’insulina e del glucagone materno, i quali non attraversano la placenta, risponde incrementando la produzione della propria insulina e di conseguenza matura una macrosomia. L’iperinsulinismo fetale si associa ad un rischio aumentato di morte endouterina, Sindrome da Distress Respiratorio (RDS) e ipoglicemia neonatale.
Il trattamento del diabete gestazionale prevede una dieta equilibrata e se la glicemia non si mantiene tra i limiti è necessario ricorrere alla somministrazione di insulina. È importante monitorare il glucosio plasmatico durante il travaglio e il parto ed evitare l’ipoglicemia.
La maggior parte di glucosio materno viene utilizzato per l’accrescimento del feto per cui nei periodi di digiuno si ha uno stato catabolico e vengono utilizzati i lipidi come fonte energetica (chetogenesi). Dal consumo dei lipidi si formano i corpi chetonici che vengono rilasciati nel sangue (chetonemia). La chetonemia determina una riduzione del ph sanguigno e si instaura un’acidosi metabolica.
Per bilanciare il quadro di ipoglicemia conseguente al digiuno il cervello produce degli ormoni che aumentano la glicemia (iperglicemizzanti). L’iperglicemia che si viene ad instaurare non può però essere contrastata a causa della resistenza all’insulina provocata dalla gravidanza.
La chetoacidosi diabetica se non trattata e trascurata può essere causa di coma ipoglicemico e di conseguente morte materna.
Il distacco di placenta normoinserito
Per distacco di placenta si intende la separazione prematura della placenta normoinserita, organo che permette il trasferimento di ossigeno e sostanze nutritive dalla mamma al feto, dalla parete uterina. Questo evento è una delle più importanti ragioni di morte materna e fetale.
In base alla superficie di placenta che si stacca dalla parete uterina si parla di:
- distacco marginale (il sangue passa fra le membrane fetali e fuoriesce dalla vagina);
- distacco centrale (il sangue rimane intrappolato tra la parete uterina e la placenta);
- distacco totale.
I segni clinici che permettono di fare diagnosi di distacco di placenta sono: alterazioni cardiotocografiche, sanguinamento vaginale, contrazioni uterine e, nei casi più gravi, tetania uterina. Il sintomo più importante è l’emorragia ante-partum ma, nel caso di distacco centrale, l’emorragia rimane confinata tra la parete uterina e la placenta (ematoma retro placentare) quindi la perdita di sangue non sempre si correla con l’entità del distacco e la gravità del quadro clinico può essere sottostimata.
Nei casi gravi di distacco di placenta, il sangue invade il miometrio ovvero la muscolatura uterina; di conseguenza si ha una irritabilità uterina per cui, in seguito al parto, l’utero si contrae scarsamente (utero di Couvelaire), si presenta un’emorragia e frequentemente si ha necessità isterectomia (rimozione dell’utero) per interrompere il sanguinamento poiché in alcuni casi il solo trattamento farmacologico può non essere sufficiente.
L’utero di Couvalaire (apoplessia utero placentare) si ha quando il distacco di placenta comporta anche degli effetti sistemici ovvero una compromissione multi-organo.
L’emorragia che il distacco di placenta comporta può causare ipossia fetale, ossia uno stato generale di carenza di ossigeno, e shock emorragico (o ipovolemico) a carico della gestante, il quale può portare anche alla morte di quest’ultima, in particolare nei casi di un’estesa separazione della placenta dalla sede di inserzione.
In seguito a questi eventi si può verificare l’arresto cardiocircolatorio che necessita della rianimazione cardiopolmonare la quale in gravidanza risulta essere più complessa ed è causa di insuccesso perché la capacità residua del polmone è ridotta e il flusso sanguigno può essere alterato in seguito alla compressione di un importante vaso sanguigno, la vena cava inferiore, da parte delle dimensioni dell’utero gravido quando la gravida è in posizione supina.
A tal fine risulta fondamentale il dislocamento dell’utero gravido durante la rianimazione cardiopolmonare.
Il taglio cesareo perimortem migliora gli esiti materni e fetali, riduce il rischio di danno ipossico, migliora la gittata cardiaca riducendo la compressione della vena cava inferiore da parte dell’utero gravido, riduce la richiesta metabolica e permette compressioni toraciche più efficaci.
La paziente gravida va intubata il più precocemente possibile al fine di proteggere le vie aeree dall’aspirazione ed agevolare ossigenazione e ventilazione.
I possibili errori medici
Le morti materne possono essere dovute a:
- negligenza;
- imprudenza;
- imperizia da parte del personale medico;
- la mancanza di un’adeguata comunicazione tra professionisti;
- l’incapacità di percepire la gravità del problema;
- la diagnosi errata;
- i trattamenti intempestivi;
- la mancata valutazione del quadro clinico da parte dei professionisti possono comportare mortalità materna.
Le morti materne potrebbero essere evitate se si migliorano gli standard di assistenza e organizzativi.
Non bisogna trascurare dei segni o dei sintomi avvertiti dalla paziente in quanto potrebbero essere un campanello di allarme. Ad esempio, se la gravida presenta un sanguinamento dalla seconda metà della gravidanza deve essere fatta una diagnosi differenziale tra distacco di placenta e placenta previa e trattare il caso clinico in base alle condizioni cliniche sia della madre che del feto, in base all’epoca gestazionale e all’entità del sanguinamento.
Le gravidanze complicate da patologie preesistenti (ipertensione, diabete, cardiopatie, trombofilie) o da patologie della gravidanza stessa (preeclampsia, ipertensione gestazionale, diabete gestazionale) devono essere seguite in maniera più intensiva da parte di un team multidisciplinare al fine di evitare ulteriori complicanze che possono mettere a rischio la vita della paziente.
È importante che venga monitorato lo stato di salute della donna non solo durante la gravidanza e il parto ma anche dopo il parto soprattutto se sussistono dei fattori di rischio per emorragia del post partum poiché se non viene individuata e corretta la causa che l’ha determinata può comportare la morte della puerpera. In seguito al parto, inoltre, il rischio di embolia polmonare e delle complicanze tromboemboliche è maggiore per cui deve essere prescritta una terapia adeguata quando indicato.
Non deve essere omessa l’esecuzione di esami strumentali per confermare o meno un dubbio diagnostico come non deve essere ritardato o omesso un trattamento indispensabile e soprattutto se si ha un deterioramento delle condizioni cliniche il trattamento deve essere eseguito nel minor tempo possibile. Il trattamento deve essere adeguato al caso clinico e la terapia deve essere corretta.