PREVENZIONE DELLA MORTALITÀ MATERNA
ERRORE MEDICO E RISARCIMENTO DANNI – AVVOCATO MALASANITÀ
La mortalità materna è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “la morte di una donna durante la gravidanza o entro 42 giorni dal suo termine per qualsiasi causa correlata o aggravata dalla gravidanza o dal suo trattamento ma non da cause accidentali o fortuite”.
Le cause principali di mortalità della madre
Le cause principali di mortalità della madre sono:
- emorragia post partum;
- rottura d’utero;
- emorragia cerebrale;
- chetoacidosi diabetica;
- embolia di liquido amniotico;
- coagulazione intravascolare disseminata (CID);
- embolia polmonare;
L’emorragia post partum
L’emorragia post partum: è la perdita di sangue maggiore di 500 ml in seguito a parto spontaneo e maggiore di 1000 ml in seguito a taglio cesareo. L’emorragia del post partum può verificarsi entro 24 ore dal parto e in questo caso si parla di emorragia primaria, mentre si parla di emorragia tardiva quando questa si verifica fra le 24 ore e la 12esima settimana dal parto.
L’ostetrica, al fine di diagnosticare l’emorragia del post partum, deve quantificare la perdita di sangue attraverso delle sacche graduate. Se la perdita di sangue risulta essere maggiore rispetto ai range di riferimento (500 in caso di parto spontaneo e 1000 in caso di taglio cesareo) il benessere materno risulta essere compromesso in modo direttamente proporzionale al quantitativo di sangue perso.
Se la perdita è maggiore di 1500 ml la donna va in shock ipovolemico e in questi casi è necessario ripristinare il sangue perso attraverso delle trasfusioni in modo da mantenere stabili le condizioni emodinamiche. Se la perdita di sangue è maggiore di 2000 ml la donna è a rischio di collasso cardiocircolatorio e morte.
Quando viene diagnosticata l’emorragia del post partum deve essere ricercata la causa che l’ha provocata. Le cause di emorragia del post partum possono essere le seguenti:
- atonia uterina: mancata contrazione dell’utero in seguito all’espulsione del feto, condizione necessaria che permette di contenere l’eccessiva perdita ematica in quanto favorisce un’emostasi meccanica. Se l’utero non si contrae si assiste ad una notevole perdita di sangue.
L’ostetrica e il ginecologo dopo aver individuato che è questa la causa dell’emorragia del post partum devono procedere alla somministrazione di farmacia che consentono all’utero di contrarsi. Se, nonostante la somministrazione di questi farmaci, l’utero non si contrae si deve procedere ad un tamponamento uterino e se nemmeno questa tecnica è efficace si rende necessaria la rimozione dell’utero;
- permanenza di materiale all’interno dell’utero in seguito all’espulsione del feto e degli annessi (placenta e membrane), condizione che impedisce all’utero di contrarsi e determinare l’emostasi meccanica. Dopo aver individuato la persistenza di materiale placentare all’interno dell’utero, l’ostetrica e il ginecologo devo adoperarsi per rimuoverlo tramite una revisione della cavità uterina così da risolvere l’emorragia;
- problemi della coagulazione del sangue;
- presenza di lacerazioni a livello vaginale o della cervice uterina che non sono state trattate o che sono state suturate non efficacemente.
La rottura d’utero
La rottura d’utero evenienza rara che aumenta il rischio di morbilità e mortalità materna. Sono più a rischio di rottura d’utero le gravide che hanno avuto dei pregressi tagli cesarei: più sono i pregressi tagli cesarei, maggiore è il rischio di incorrere in rottura d’utero; per questo motivo, se la donna ha avuto più di due pregressi tagli cesarei non deve essere effettuato il travaglio di prova perché con l’inizio dell’attività contrattile il rischio di rottura d’utero è molto alto; in caso di travaglio di parto in madri che hanno avuto pregressi tagli cesarei vi è infatti una possibilità che le ferite possano riaprirsi a poco a poco sino alla completa rottura dell’utero che vede la comunicazione tra cavità uterina e cavità addominale.
Anche l’alta multiparità (donne che hanno partorito più volte) è un fattore di rischio per rottura d’utero perché presentano il segmento uterino inferiore assottigliato per cui è più soggetto alla rottura, soprattutto in presenza di attività contrattile uterina. Altri fattori di rischio sono: pregressi interventi che hanno interessato tutto lo spessore dell’utero, uso di manovre ostetriche incongrue, uso sproporzionato di prostaglandine e ossitocina per indurre il travaglio di parto.
Alla rottura d’utero si accompagna una rilevante perdita di sangue, e se questa si verifica durante il travaglio di parto il dolore viene camuffato da quello delle contrazioni. L’ostetrica e il ginecologo devono saper riconoscere i segni di rottura d’utero perché è necessario agire in emergenza per riparare la lesione dell’utero e se questo non è possibile si deve valutare la rimozione dell’utero (isterectomia).
I segni dell’avvenuta rottura sono: cessazione dell’attività contrattile, pallore, dolore addominale, shock e dolore alla spalla.
L’emorragia cerebrale
L’emorragia cerebrale è una complicanza dell’eclampsia ossia la presenza di convulsioni tonico cloniche che si possono verificare in gravidanza, in travaglio e anche dopo il parto. Le convulsioni sono espressione del danno del sistema nervoso centrale per cui si ha il rischio di emorragia cerebrale. L’eclampsia può essere una complicanza della preeclampsia. La preeclampsia è una malattia sistemica di origine placentare che si manifesta dalla seconda metà della gravidanza con diversi sintomi quali pressione arteriosa alta, insufficienza renale, disturbi della coagulazione, disturbi gastrointestinali, cefalea e disturbi visivi.
Il ginecologo, se la paziente presenta più episodi di pressione alta nel giro di 24 ore, deve prescrivere farmaci antipertensivi con l’obiettivo di mantenerla nella norma ovvero entro i 140/90 mmHg perché se la pressione non è controllata il quadro clinico si complica.
L’ostetrica si deve preoccupare di rilevare la pressione arteriosa giornalmente e se questa aumenta o si mantiene alta nonostante la terapia antipertensiva si deve passare alla somministrazione di farmaci di altri farmaci di seconda linea. Inoltre, al fine di diagnosticare un’insufficienza renale correlata alla preeclampsia, l’ostetrica deve invitare la gravida ad eseguire la raccolta delle urine in 24 ore per analizzare la presenza di proteine nelle urine e deve essere effettuato il bilancio idrico della giornata registrando le entrate ovvero i fluidi assunti e le uscite raccogliendo le urine in un contenitore graduato. Quando la preeclampsia raggiunge un grado severo la gravida/puerpera è a rischio di sviluppare un’eclampsia la quale può portare al decesso per emorragia cerebrale.
La chetoacidosi diabetica
La chetoacidosi diabetica è una complicanza del diabete gestazionale e del diabete pregravidico non trattata e di digiuno prolungato. Durante la gravidanza, il glucosio viene riservato per l’accrescimento del feto e nei periodi di digiuno vengono utilizzati i grassi per la produzione di energia per cui si ha la produzione di corpi chetonici che vengono prodotti dal processo di degradazione dei lipidi i quali si accumulano nel sangue. La presenza di corpi chetonici nel sangue rende quest’ultimo acido e ne abbassa quindi il pH. Di conseguenza per bilanciare la riduzione del glucosio il cervello rilascia ormoni che aumentano la glicemia. L’iperglicemia, però, non può essere contrastata a causa della resistenza all’insulina e la ridotta tolleranza al glucosio che è propria della gravidanza. Le donne in gravidanza, infatti, sono soggette a sviluppare il diabete a causa della presenza di ormoni prodotti dalla placenta a partire dalla seconda metà della gravidanza i quali provocano una resistenza all’insulina, ormone che ha il ruolo di abbassare i livelli di glucosio nel sangue.
La chetoacidosi diabetica viene quindi diagnosticata quando vi è iperglicemia, presenza di corpi chetonici nel sangue e riduzione del pH sanguigno. Se il ginecologo non riconosce i segni della chetoacidosi e non inizia un trattamento adeguato la gravida va incontro a shock, coma e morte.
È compito dell’ostetrica, nei casi di madri diabetiche monitorare il glucosio plasmatico durante travaglio e parto ed evitare la disidratazione.
Dopo aver diagnosticato la chetoacidosi diabetica, al fine di prevenire le sue complicanze quali la morte della mamma, l’ostetrica non deve esitare nella somministrazione per via endovenosa di soluzioni fisiologiche per abbassare la glicemia e di insulina; in concomitanza deve anche essere somministrata una soluzione a base di zuccheri per evitare l’ipoglicemia.
L’emobolia di liquido amniotico
L’embolia di liquido amniotico è passaggio nella circolazione materna di materiale fetale. Il materiale fetale (vernice caseosa, liquido amniotico, lanugine) ostacola il flusso sanguigno in corrispondenza dei vasi sanguigni impedendo l’arrivo di sangue ossigenato a polmoni, cervello e cuore i quali vanno incontro a sofferenza.
Questa condizione, molto rara, può essere causa di morte materna. In questi casi la madre necessita di un adeguato supporto emodinamico e di una rianimazione cardiopolmonare. L’embolia di liquido amniotico deve essere sospettata dal ginecologo e dall’ostetrica quando si presenta ipossia (riduzione dell’apporto di ossigeno), ipotensione (riduzione della pressione arteriosa) e coagulopatia. I segni e i sintomi sono: difficoltà respiratorie, perdita di coscienza, arresto cardiaco e coagulopatia intravascolare disseminata.
La coagulazione intravascolare disseminata (CID)
La coagulazione intravascolare disseminata (CID) è la coagulopatia da consumo dovuta, per l’appunto, al consumo dei fattori della coagulazione, condizione che non permette di arrestare la perdita ematica. Inizialmente la CID si manifesta con la presenza disseminata di trombi come risposta all’eccessiva perdita di sangue, così da poterla controllare. Se la perdita ematica non viene arrestata i fattori della coagulazione si consumano e il sangue non riesce più a coagulare. Spesso la coagulazione intravascolare disseminata si verifica in corso di complicanze ostetriche e si presenta come una condizione emorragica con sanguinamento cutaneo e mucoso e con episodi trombotici.
Nei casi più gravi si ha shock ipovolemico e insufficienza multiorgano che porta al decesso della neo-mamma. La diagnosi è clinica ovvero si vede la perdita di sangue dalla cute e dalle mucose, e di laboratorio in quanto si ha una riduzione delle piastrine, un aumento dei prodotti di degradazione della fibrina, una riduzione del fibrinogeno e dell’antitrombina III e PT e PTT prolungati.
La paziente presenta inoltre una riduzione dell’emoglobina conseguente all’eccessiva perdita di sangue. In presenza di un’emorragia l’ostetrica deve eseguire un prelievo di sangue al fine di valutare questi valori in modo da giungere a una diagnosi. In questi casi deve essere eseguita una trasfusione di sangue per ripristinare il volume di sangue perso e deve essere somministrato plasma fresco congelato al fine di ripristinare i fattori della coagulazione.
L’embolia polmonare
La presenza di un trombo a livello dei vasi polmonari che porta ad insufficienza respiratoria sino al decesso della madre. Le donne in gravidanza e maggiormente dopo il parto sono a rischio di embolia polmonare poiché la gravidanza determina uno stato tromboembolico per l’aumento dei fattori della coagulazione.
Per le gravide ad alto rischio di patologia tromboembolica e che sono affette da trombofilie congenite, il ginecologo deve prescrivere farmaci anticoagulanti già in epoca prenatale. Se la gravida presenta quattro o più fattori di rischio questi farmaci devono invece essere assunti nel primo trimestre di gravidanza e, invece, se i fattori di rischio sono di meno deve essere considerata la prescrizione a partire dalla 28esima settimana gestazionale circa. Se la gravidanza è a basso rischio può indossare le calze elastiche sia in gravidanza che dopo il parto.
Il ginecologo e l’ostetrica devono assicurarsi che la terapia anticoagulante venga interrotta in previsione del parto o almeno 24 ore prima di un taglio cesareo perché il rischio emorragico è aumentato se la madre assume questi farmaci. La terapia anticoagulante deve poi essere ripresa dopo 12 ore dal parto o dall’intervento. Se il ginecologo e l’ostetrica non tengono conto dei fattori di rischio e di conseguenza alla gravida non viene prescritta alcuna terapia quest’ultima è a rischio di embolia polmonare.
Le misure preventive
La morte della mamma può essere evitata mettendo in atto delle misure preventive. Il ginecologo e l’ostetrica devono raccogliere tutta l’anamnesi recente e remota, familiare e personale della gravida sin dal momento in cui viene presa in carico, al fine di identificare la presenza di eventuali fattori di rischio che possono essere responsabili dell’insorgenza di quadri patologici.
Dopo aver identificato i fattori di rischio e raccolto tutti i dati clinici, il ginecologo e l’ostetrica, in caso di dubbio circa la persistenza di un processo patologico devono prescrivere esami di laboratorio e strumentali al fine di escludere o confermare la diagnosi. Ad esempio, se la gravida aveva valori glicemici alterati prima della gravidanza e/o è obesa (l’alterazione dei valori glicemici e l’obesità sono dei fattori di rischio di diabete) deve essere prescritta la curva da carico che permette di fare diagnosi di diabete gestazionale.
Soltanto dopo aver confermato la diagnosi l’andamento della gravidanza e il benessere materno e fetale devono essere monitorati con una certa frequenza, deve essere prescritto un trattamento profilattico in presenza di fattori di rischio al fine di prevenire l’insorgenza di complicanze che possono essere responsabili della morte della madre.
Alcune misure preventive al fine di evitare la morte della mamma
Alcune delle misure preventive al fine di evitare la morte materna potrebbero essere:
- profilassi tromboembolica con farmaci anticoagulanti per le donne ad alto rischio e a rischio moderato di patologia tromboembolica per la prevenzione dell’embolia polmonare;
- profilassi antiemorragica al momento del parto per prevenire l’emorragia post partum e le sue complicanze;
- diagnosi del diabete gestazionale e suo trattamento con la dieta o con l’insulina se non è compensato ed evitare il digiuno prolungato per la prevenzione della chetoacidosi diabetica;
- diagnosi e trattamento della chetoacidosi;
- controllo dell’integrità della placenta per prevenire l’emorragia del post partum causata dalla ritenzione di materiale placentare all’interno dell’utero;
- ricercare e trattare le cause dell’emorragia del post partum;
- rianimazione cardiopolmonare e buon supporto emodinamico in caso di embolia di liquido amniotico;
- eseguire il taglio cesareo se la donna ha avuto più di due pregressi tagli cesarei perché ad alto rischio di rottura d’utero;
- diagnosticare la preclampsia, controllare la pressione arteriosa con farmaci antipertensivi, controllare la funzionalità renale. somministrare solfato di magnesio in presenza di crisi convulsive al fine di evitare la morte della mamma per emorragia cerebrale.
Gli errori medici che causano la morte della madre
I possibili errori medici sono:
- mancata prescrizione della profilassi tromboembolica in presenza di fattori di rischio;
- mancata interruzione di farmaci anticoagulanti in previsione di un parto o di un intervento;
- mancata somministrazione di farmacia anticoagulanti, se la donna presenta fattori di rischio, 12 ore dopo il parto;
- mancata esecuzione dell’anamnesi e della ricerca dei fattori di rischio nel momento in cui viene presa in carico la paziente;
- non programmare il taglio cesareo se la donna ha avuto più di due pregressi tagli cesarei e non eseguirlo nel momento in cui inizia l’attività contrattile uterina per evitare il rischio di rottura d’utero;
- mancata rilevazione dell’integrità della placenta e delle membrane amniocoriali in seguito alla loro espulsione;
- trasfusione di sangue il cui gruppo sanguigno del donatore non è compatibile con quello del ricevente;
- mancata esecuzione della profilassi antiemorragica con ossitocina al momento del parto;
- mancata ricerca e trattamento delle cause di emorragia post partum;
- inadeguata emostasi delle strutture (utero, muscoli, sottocute, peritoneo) che vengono suturate durante il taglio cesareo. se l’emostasi è inadeguata queste strutture possono sanguinare dopo aver terminato l’intervento provocando un’emorragia e per risolverla è necessario operare nuovamente;
- esecuzione di interventi invasivi in maniera non sterile;
- mancata esecuzione della trasfusione di sangue in presenza di grave emorragia e di plasma fresco congelato in caso di coagulazione intravascolare disseminata;
- somministrazione di farmaci senza essersi prima assicurati che la gravida ne sia allergica;
- mancata diagnosi e trattamento della preeclampsia;
- sutura non adeguata delle lacerazioni del canale del parto;
- mancata diagnosi e trattamento di diabete gestazionale e di chetoacidosi diabetica;
- non consentire alla donna di idratarsi durante il travaglio e mancato monitoraggio della glicemia in gravide con diabete;
- non garantire un buon supporto emodinamico in presenza di un’emorragia e di embolia da liquido amniotico;
- somministrazione di una terapia non corretta;
- eccessiva somministrazione di farmaci per l’induzione del travaglio;
- impropria somministrazione di solfato di magnesio in caso di preeclampsia grave che può portare ad un’intossicazione;
- mancato trattamento delle crisi convulsive e contenimento della paziente durante tali crisi;
- trattamento errato o intempestivo.